Sono particolarmente onorato e felice dell'occasione che mi è stata offerta di tenere una conversazione sulla legalità.
Credo siamo tutti d'accordo nel riconoscere che il tema della legalità - e non vi sarà difficile scoprire in controluce tra le righe di questo mio dire anche un filo che ci riconduce a Norberto Bobbio - è di fondamentale importanza, in questi tempi che comunemente vengono definiti " di crisi" o "di transizione" (anche se penso che non vi siano stati nella storia tempi che, nel momento in cui si vivevano, non fossero considerati tali) e che tuttavia, proprio per questo, rappresentano una grande occasione per porre le basi di una concreta risposta da parte della "politica" alle domande che la società pone.
Un'occasione per riflettere sulla convivenza civile, sulle condizioni che sono necessarie per avere una società più giusta e più equilibrata e uno Stato più rispondente alle esigenze ed alle domande dei consociati; per superare quella che dovrebbe essere un'antinomia solo apparente tra gli interessi privati e individuali - che proprio nei momenti cosiddetti di crisi vengono con maggior forza reclamati e spesso imposti - e lo spirito pubblico, il comune sentire, cioè il consentire, che è l'essenza del consenso.
Se così è, mi sembra particolarmente significativo che questa conversazione si tenga in una Università. L'Università deve tornare ed essere un luogo, il luogo privilegiato vorrei dire, dove si elaborano le grandi idee che ci devono guidare nel cammino verso il futuro, mentre oggi si sarebbe portati a credere che le idee ed i programmi della società si elaborino nelle aule giudiziarie, là dove, invece si esprime solo la patologia della società. Ed io sono convinto che sono i luoghi di cultura e prima di tutto le università, più delle aule giudiziarie, le sedi idonee per farci riscoprire l'idea di "legalità".
Anche perché nelle aule giudiziarie il tema viene in evidenza dal punto di vista della illegalità, là dove esso deve essere affrontato come "legalità".
L'argomento del nostro incontro nasce da una conversazione con dei colleghi, nella quale qualcuno sosteneva che l'esperienza delle inchieste sulla corruzione, sulla commistione fra politica ed affari, sugli arricchimenti personali con il denaro pubblico ha fatto riemergere un concetto che appariva sopito - la legalità appunto - e ciò anche presso coloro che del concetto stesso avevano fatto strame; anzi talvolta è sorto il sospetto, probabilmente anche infondato, che qualcuno strillasse contro le illegalità più vistose e di altri per esorcizzare le proprie.
Quello che comunque essenzialmente conta è che, in un modo o in un altro, sia riemersa la questione "legalità" e che ciascuno di noi nel proprio agire quotidiano si confronti con essa.
Il riferirsi alle inchieste giudiziarie può costituire solo l'occasione per una discussione, perché in quella prospettiva la contrapposizione legalità/illegalità resterebbe confinata in un ambito limitato, quello appunto del campo penale. Parlare di legalità in questo contesto sarebbe riduttivo e servirebbe ad accentuare quella tendenza maturatasi in questi anni, soprattutto nell'immaginario collettivo , di ritenere assorbente di tutto il diritto, quello penale.
Noi dovremmo invece sollevarci più in alto per considerare tutto ciò che riguarda l'osservanza delle regole del diritto e del principio della supremazia dei valori, che costituiscono la base di uno Stato moderno e civile; di uno Stato, appunto, di diritto.
Ma quale legalità?
Viviamo tutti, sperimentiamo tutti una legalità difficile, talvolta, come vedremo, contraddittoria nelle enunciazioni rispetto ai fini e in questi rispetto ai mezzi. Dal magistrato che deve applicare la legge, ma che per ripristinare ad ogni costo la legalità può essere tentato dall'idea di non tener conto egli stesso delle regole che gli sono imposte per perseguire quel fine; all'imprenditore che non vorrebbe essere vincolato da lacci e lacciuoli, il cui eccesso può fornirgli l'alibi per giustificare anche le trasgressioni rispetto a regole invece essenziali; dall'amministratore pubblico che deve perseguire l'interesse pubblico ma ne è ostacolato dal timore che qualunque cosa faccia lo esponga al sindacato del giudice penale ed alla condanna della piazza prima ancora che il processo si celebri; al cittadino che attende, una licenza, una concessione, un'autorizzazione, un nulla osta e si sente ostacolato da una burocrazia sorda, che vive spesso solo in funzione della propria sopravvivenza.
Regole deontologiche violate da appartenenti ad ordini professionali, da titolari di pubbliche funzioni, nonostante che esse, essendo legate al costume, dovrebbero comportare più intensa adesione. E tuttavia pur essendo quelle regole richiamate dall'ordinamento e quindi conducenti alla legalità, non ricevono sanzioni neppure di carattere sociale, come un tempo avveniva.
Ma il panorama è ancora più vasto, tanto da far parlare di eclissi della legalità, anche perché da noi vengono talvolta messi in discussione, a differenza che in altri Paesi, capisaldi essenziali della democrazia. La presenza violenta e prepotente di un antistato che opera attraverso comportamenti criminali e persegue fini di profitto e di potere, minando le basi della convivenza sociale e delle stesse istituzioni democratiche. La confusione istituzionale causata da interferenze tra poteri dello Stato e da invasioni reciproche di competenze. La cosiddetta supplenza di poteri e di istituzioni, che qualche potere assume necessitata, perché conseguenziale ad altrui inerzie o incapacità di assumere le rispettive, doverose responsabilità, e che a volte è ricercata non di rado con intenti "etici" ("di moralizzazione"), se non addirittura di protagonismo. Il ricorso eccessivo alla decretazione di urgenza dovuto non ad intento sopraffattorio del Governo ma necessitato dalla inerzia del Parlamento, a sua volta causata dalla instabilità politica.
Propositi di rottura del principio supremo dell'unità e indivisibilità della Repubblica che, pur evocando il pericolo delle tristi lacerazioni di paesi vicini, sono stati interpretati come pittoresche enfatizzazioni. Ma ora si va diffondendo l'opinione che bisogna essere vigili di fronte a prese di posizione che contrastano con radicate convinzioni degli italiani esaltate dalla costituzione ed impongono un'attenta e decisa presa di coscienza del problema.
I servizi pubblici e quelli sociali spesso carenti, che fanno diventare molti diritti mere enunciazioni, vanificano il principio di uguaglianza e gli altri fondamentali principi riconosciuti e garantiti dalla Costituzione. Una vanificazione che è il prodotto della violazione di doveri la cui osservanza è necessariamente legata all'idea di legalità.
Si avverte oggi, specie nei giovani, l'aspirazione ad una legalità che non può essere solo l'ossequioso formale a una norma imposta con la forza della sanzione. Una legalità che anche per la sua assonanza con "legame" deve, invece, basarsi sul consenso e che, proprio per ciò, deve esprimere una identità tra norme giuridiche e valori e che richiede una grande maturazione della coscienza civile. L'altro modo di intenderla non può che portare illegalità da parte di chi in quei valori non si identifichi.
Parlo qui, naturalmente, non di valori meramente normativi. Mi riferisco piuttosto a quella "coscienza civile" che ho altre volte definito come "l'intima adesione dell'individuo ai valori essenziali della società", come il bene comune, come la solidarietà.
In questo senso il diritto può considerarsi giusto; giusto in senso laico, aperto cioè all'idea del possibile; solo così potremo risolvere qualcuno dei problemi che porrò alla fine di questa mia esposizione.
Non posso in questa sede esaurire il discorso sul rapporto tra diritto e giustizia. Tuttavia permettetemi una provocazione, per Voi e per me stesso. Ricorro alla fantasia di Friedrich Dürrenmatt, che come è noto non è un giurista ma un drammaturgo (e, forse, questa è una ulteriore provocazione: ricorrere, anche quando si parla di diritto, a chi ne sta fuori, a chi del diritto ci può dare colori disincantati; non a caso l'Autore teneva una conferenza sulla giustizia e il diritto, agli studenti dell'Università di Magonza). Racconta dunque Dürrenmatt nel suo "I dinosauri e la legge": "il profeta Maometto è in cima a un colle in un luogo solitario. Ai piedi del colle c'è una fonte. Arriva un cavaliere. Mentre il cavaliere abbevera il suo cavallo dalla sella gli cade una borsa di monete. Il cavaliere se ne va senza accorgersi che ha perso la borsa. Arriva un secondo cavaliere, trova la borsa, la prende e si allontana a cavallo. Arriva un terzo cavaliere e abbevera alla fonte. Nel frattempo il primo cavaliere si accorge di aver perso la borsa di monete e torna indietro. Crede che sia stato il terzo cavaliere a rubargli il denaro: ne nasce una lite. Il primo cavaliere uccide il terzo cavaliere, poi, non trovando la borsa, rimane sorpreso e taglia la corda.
Il profeta in cima al colle si dispera. "Allah - grida -, il mondo è ingiusto. Un ladro si allontana impunito e un innocente viene ucciso!". Allah (che, nota Dürrenmatt, in genere non parla) risponde: "Stolto! che cosa vuoi mai capire della mia giustizia! Il denaro che il primo cavaliere ha perso lo aveva rubato al padre del secondo cavaliere. Il secondo cavaliere si è ripreso quello che già gli apparteneva. Il terzo cavaliere aveva violentato la moglie del primo cavaliere. Uccidendo il terzo cavaliere, il primo cavaliere ha vendicato sua moglie". Quindi Allah si chiude nuovamente nel suo silenzio. Da quando ha udito la voce di Allah, il profeta loda la sua giustizia".
Il racconto finisce qui, ma Dürrenmatt coglie l'occasione per osservare che se il profeta non fosse rimasto neutrale, avrebbe avvisato il primo cavaliere della perdita del suo denaro, per cui il secondo cavaliere non avrebbe rubato e il terzo cavaliere sarebbe rimasto in vita; ma, con ciò, anche l'ingranaggio della giustizia universale si sarebbe inceppato e la dimostrazione di essa per bocca di Allah sarebbe stata impedita da un piccolo gesto umano, sia pure comprensibile per noi tutti.
A me il racconto, che nasce dal fatalismo di quella religione, suggerisce anche una considerazione che vale nell'immediato che ho già svolto di recente in altra sede: la velleità del giudice, che conosce solo del fatto che deve giudicare, e che dovrebbe limitarsi solo a questo, di porsi come "strumento di salvezza e rigenerazione sociale", senza avere però, come Allah, la visione complessiva delle cose che gli consenta di assolvere una giustizia globale.
Fatta questa provocazione, vorrei fin da ora anticipare che, come non sono in grado di dare una risposta al dilemma, diritto-giustizia, così non sono in grado di intrattenermi sulla definizione del diritto (che pure costituisce il presupposto della legalità). Ho ben presente la ironica constatazione di Kant che "i giuristi cercano ancora una definizione del loro concetto di diritto" e che riprendeva una riflessione già espressa da Leibniz ("iuris et iustitiae notiones post tot praeclaros scriptores, nescio an satis liquidae habeantur"): una ironia che non preservò - come ha notato Riccardo Orestano - né Leibniz né Kant né tantissimi altri dalla illusoria e presunta speranza di riuscire dove i millenni non erano potuti arrivare e dove mai nessuno saprà arrivare. Ecco perché quando il diritto non è astrazione ma pragmatismo e quindi più forte, non c'è bisogno di definirlo.
Vorrei invece, sottolineare il proposito cioè, di non trattare del tema della legalità solo sul piano teorico e dottrinale, per confrontarmi piuttosto con l'esperienza che ho maturato alla Corte Costituzionale - giudice delle leggi.
Vorrei partire da una affermazione che mi sento di fare e che spero condividiate.
Il diritto deve essere anzitutto ragionevolezza.
Quando ero giudice e lo sono stato per circa quarant'anni mi sono imposto una regola al momento di scrivere le sentenze.
Quella - e davvero non so dirvi se fosse piuttosto un atto di presunzione - che la mia decisione fosse non dico accettata, ma almeno compresa da coloro cui essa era destinata. Ma voglio dire di più. Se l'uomo medio non "capisce " la sentenza di un giudice, non possono che darsi due soluzioni: o il giudice ha sbagliato nell'applicare la legge oppure è la legge ad essere sbagliata, nel senso che non corrisponde (o non corrisponde più) al comune sentire.
Con una recente decisione del novembre scorso, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, su un ricorso presentato contro il Regno Unito, ha affermato un importante principio.
Si trattava di un caso in cui il ricorrente aveva invocato a propria discolpa un precedente giudiziario del 1736, per lungo tempo applicato, in base al quale riteneva di dovere essere assolto per il principio dello stare decisis.
L'imputato, invece, era stato condannato; sulla base della premessa che la common law poteva e doveva interpretarsi in senso evolutivo tale da riflettere i mutamenti della società.
Ebbene la Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso ricordando essere inevitabile in qualsiasi sistema giuridico che una norma, per quanto chiaramente descritta, richiede una interpretazione da parte del giudice (soprattutto in un sistema quale quello di common law); con la conseguenza che il riferimento alla legge implicito nel principio di legalità, non esclude una interpretazione da parte del giudice che sia adeguata ai tempi.
Un precedente lo ritroviamo da noi, nella sentenza della Corte Costituzionale che eliminò il reato di adulterio.
Questi sono casi che il cittadino medio può "capire", perché esprimono la ragionevolezza del diritto.
Non è per caso che ho citato quella vicenda giudiziaria nata nel mondo anglosassone, perché dall'ulteriore svolgimento del mio discorso vi accorgerete come io ravvisi insanabili antinomie nel nostro attuale sistema giuridico, proprio perché noi non siamo in grado di risolvere il nodo legalità formale- legalità sostanziale, come avviene in quel mondo, con spirito pragmatico.
Il diritto anglosassone, come voi sapete, nasce dal costume, su di esso si fonda e da esso viene continuamente alimentato, anche se oggi la forte influenza continentale ed esigenze di più accentuata "statualità" turbano un sistema già così felice. Nell'esperienza della common law, il diritto non è esistente e vigente perché emanante da una volontà superiore.
Lo stesso Parlamento inglese si è sempre sentito sottoposto a una regola inderogabile, cioè il rispetto alla "rule of law" che corrisponde al nostro concetto della supremazia dei valori. Nessun Parlamento - ricorda Wade, un giurista inglese - pur avendone tutti i poteri si azzarderebbe mai a disciplinare l'habeas corpus in modo diverso da come l'istituto si è costituito nel comportamento dei secoli.
Questa autolimitazione nasce, appunto, dall'origine e dal carattere di quel diritto, che mai è stato inteso come comando della volontà ma piuttosto più pragmaticamente come impostazione della ragionevolezza. Insomma l'esperienza dei paesi anglosassoni dimostra come quella che è stata definita "collaborazione orizzontale" sia capace di produrre norme giuridiche direttamente dai comportamenti sociali. Questo tipo di produzione normativa comporta una adesione alle regole comuni molto più intensa, molto meno drammatica di quello che può avvenire negli ordinamenti basati sul diritto scritto. È infatti evidente che laddove le regole si identificano con i comportamenti - o comunque con questi tendono ad identificarsi - la legalità diventa un fatto naturale, perché la legge non è imposta ma è insita nel modo di essere della società. E la legalità diventa meno precisa e certa nei suoi confini quando, senza alcuna possibilità di ancorarsi alla ragione, il diritto si fa coincidere solo con la volontà dello Stato.
In questo senso è evidente che il limite che il diritto pone al potere dello Stato non è se non un limite che una volontà pone a se stessa e che quindi può in ogni momento modificare e persino sopprimere.
Non so quanto nuocciano alla legalità quei messaggi che lo Stato invia e che possono essere letti come un sostanziale disinteresse dello Stato verso le regole da lui stesso dettate: mi riferisco, ad esempio, alle amnistie, condoni, sanatorie, dal campo penale a quello fiscale, a quello previdenziale e a quello dell'uso del territorio. Non è forse che in questo modo si premia chi ha violato la legge e si sollecitano ulteriori , future violazioni proprio nella aspettativa di altri provvedimenti clemenziali o sanatorii? Un tema questo che tornerò ad affrontare.
Il riferimento da me fatto al sistema giuridico dei paesi anglosassoni, anche se tradisce una mia indicazione di preferenza quale studioso, vuole piuttosto sottolineare come un discorso sulla legalità non possa prescindere dalle radici storiche di una determinata società, dall'assetto complessivo di una data convivenza civile e dalle sue origini, rappresentando la legalità la tendenziale aderenza dei comportamenti dell'ordine giuridico. Ed è evidente che, se nei Paesi di cui stiamo parlando la legge nasce dal costume, legge e costume sono in qualche modo l'espressione di una stratificazione che si è formata nel corso del tempo, una stratificazione che è divenuta compenetrazione.
[ Anche la storia della nascita di quello Stato è significativa al riguardo, perché in Inghilterra non vi è stata quella totale frattura, quella assoluta negazione dello Stato feudale che hanno costituito la premessa, nei Paesi continentali, della nascita dello Stato assoluto, e su di questo, dello Stato moderno. Insomma lo Stato costituzionale inglese non nasce come contrapposizione e negazione del sistema feudale ma è invece passato attraverso graduali stratificazioni che recepivano il modificarsi del comune sentire. E la testimonianza visibile è rappresentata dalla perdurante vigenza, che nessuno mette in discussione, della Magna Charta, che altro non era che un patto medievale tra sovrano e principi e che costituisce la base del moderno costituzionalismo inglese.]
Ecco perché la tematica della divisione dei poteri in Inghilterra non si pone, ovvero si pone in maniera del tutto differente da come si esprime nei Paesi continentali; là infatti la divisione dei poteri o, meglio la ripartizione delle competenze e delle attribuzioni fondamentali dell'assetto statale consegue alla prevalenza, nella vita politica e sociale di quel Paese, del potere giudiziario su quello esecutivo, prevalenza che nasce, appunto, dalla funzione giurisdizionale consistente del dichiarare un diritto esistente di per sé, non di applicare un diritto imposto da organi dello Stato, e consegue pure dall'essere l'esecutivo diffuso a livello locale, quindi, possiamo aggiungere, con un grado di compenetrazione con la società civile molto alto.
Nell'Europa continentale invece, com'è noto, diverso è stato il percorso del passaggio tra sistema medievale e nascita dello Stato assoluto - come negazione di quello- e l'innesto dello Stato moderno su quello assoluto. Così come diversi sono stati gli itinerari seguiti attraverso la cultura del razionalismo, dell'idealismo e del positivismo, nella individuazione dello Stato come l'unico produttore delle norme.
E pure nella Storia della nazione italiana sono identificabili tracce che confermano quanto detto. Come ho già avuto modo di notare nel mio volume "La cultura delle Istituzioni nella storia del Mezzogiorno", pervenendo a conclusioni che ho visto confermate successivamente dal politologo Robert Putnam ("La tradizione civica delle regioni italiane "), le diverse vicende storiche che hanno segnato da una parte il Sud dell'Italia, caratterizzato da un centralismo che risale all'epoca normanna e dall'altra parte il Centro -Nord dell'Italia, che ha sperimentato il sistema di governo autonomo fondato sui comuni, consentono di individuare una legalità - e una cultura della legalità - non monotipo. Fondata, la prima, sulla gerarchia verticale, e quindi su una legalità tendenzialmente imposta, comunque avvertita come tale; la seconda ,invece, sulla collaborazione orizzontale, segnata da un tasso molto elevato di partecipazione della intera società al perseguimento del bene comune.
Nel Centro Nord emerse una organizzazione orizzontale caratterizzata dalla cooperazione.
Nel Sud, invece, l'educazione alla legalità non si volse a infondere lo spirito della comunità, ma coincise prevalentemente con la minaccia di sanzioni, per cui lo Stato fu visto come nemico, il che ingenerò per reazione una diffusa cultura dell'illegalità.
Certo molto tempo è passato da allora. L'Italia e poi divenuta uno Stato unitario, che adesso dovrebbe poggiare su valori comuni che sono stati recepiti e scolpiti nella nostra Carta costituzionale. Tuttavia molto cammino resta ancora da fare; anzi ci sono preoccupanti segnali che sembrano indicare che, mentre nel Mezzogiorno specie nei giovani si va diffondendo il senso della legalità, come presa di distanza dalla morsa criminale che opprime quelle regioni, a questa positiva linea di tendenza si sta contrapponendo nel Nord, con un affiorare di egoismi e di posizioni particolaristiche, un diffondersi della illegalità intesa come negazione del bene comune solennemente proclamato dalla Costituzione.
Nel nostro sistema giuridico - come in quelli di altri Paesi a diritto scritto - il concetto di legalità diviene più difficile anche a causa della pluralità di livelli in cui quel concetto si esprime. In primo luogo va considerata la prevalenza del diritto comunitario rispetto al diritto interno. Per quel che riguarda quest'ultimo deve poi esser continuamente effettuata la comparazione e valutata la conformità della legge ordinaria con il testo costituzionale e, in genere, la conformità di qualsiasi norma o provvedimento rispetto alla norma superiore o a quella che prevede l'emissione del provvedimento singolo.
E tuttavia una legge "incostituzionale" non rimessa al giudice delle leggi, un atto illegittimo non annullato sia d'ufficio per carenza dell'interesse pubblico, sia su ricorso per carenza di quello privato, la "registrazione con riserva", l'atto processuale non conforme alle regole ma che raggiunge ugualmente il suo scopo, costituiscono tutti, esemplificativamente, fenomeni di divergenza del modello scritto e che tuttavia non possono essere inquadrati nella categoria della illegalità.
Sembra quasi un paradosso, ma i fenomeni cui ho fatto riferimento sono ben noti agli studiosi dei vari rami del diritto e sono indicativi della non coincidenza nel nostro sistema giuridico del concetto di illegittimità con quello di illegalità. Ed ecco perché è pericoloso che di tutti questi fenomeni possa occuparsi sempre il giudice penale, rispetto al quale viene in evidenza un'altra categoria, quella della illiceità che, come nel campo civilistico, esige un altro presupposto quale il danno o, qualche volta, il pericolo.
Ma su questi aspetti non posso dilungarmi oltre.
Ecco perché il dilemma con il quale continuiamo oggi a confrontarci è quello tra legalità formale e legalità sostanziale. E credo, anticipando quanto dirò da qui a presto, che la direzione verso la quale si sta muovendo il nostro ordinamento sia oggi quella di dare diverso risalto ad una legalità sostanziale, concepita da un lato come correlata a valori più che a regole, e dall'altro come esigenza di soddisfare utilità sociali concrete più che astratti principi.
L'idea della legalità sostanziale non è estranea al nostro ordinamento, che pur si basa su una costituzione rigida e sulla gerarchia delle fonti che vede al suo vertice la Costituzione, propositiva più di valori che di regole. Infatti nella comparazione di un atto avente valore o forza di legge con il testo costituzionale , il primo può essere riempito di significati diversi e la possibilità di questa operazione ha determinato uno spostamento di potere dal legislatore, che in base alla Costituzione è il solo legittimato a porre norme primarie, agli organi che procedono appunto a tale comparazione e cioè ai giudici. Uno spostamento di poteri a questi ultimi o con lo strumento della c.d. interpretazione adeguatrice, ovvero attraverso l'incidente di costituzionalità.
Un trasferimento di legittimazione nel quale uno studioso come Giovanni Tarello aveva intravisto addirittura un oggettivo effetto destabilizzante del sistema ed interagente anche sul rapporto legalità/illegalità. È infatti evidente che quando l'elemento propulsivo è un organo accentrato - come il Parlamento - è possibile che il mutamento giuridico si ispiri ad un'univoca linea di tendenza; quando invece, il mutamento giuridico è affidato ad organi diffusi, è meno facile che il mutamento avvenga secondo un indirizzo uniforme. Così, se la ricerca della legalità sostanziale affidata al momento giudiziario può assicurare una più marcata coincidenza con i valori espressi dalla collettività , è anche vero che può nascondersi dietro l'angolo il rischio del giustizialismo, che non è mai ragionevolezza perché è il contrario della giustizia.
E' perciò necessario che su questi significativi mutamenti si appresti la riflessione di tutti per riparare al rischio di incoerenza del sistema che ha invece bisogno di certezze.
Infatti, nel nostro ordinamento dominato dalla legge scritta, il dilemma tra legalità formale e legalità sostanziale esige una risposta che da un lato non si riferisca solo all'evidenza oggettiva assicurata agli interessi giuridicamente rilevanti dalla espressione testuale e dall'altro che non si poggi solo sulla ricerca del collegamento del diritto con la realtà e con i mutamenti della società. Una risposta quindi che eviti gli inconvenienti che l'una o l'altra scelta comporta. Se da una parte continua, ad esempio, ad essere incomprensibile una sentenza che formalisticamente si ostini a non ritenere equivalente il sigillo dello Stato in metallo ad un timbro di gomma (timbro che tuttavia soddisfa alla medesima finalità), d'altra parte è anche comprensibile l'esigenza di ciascuno a che l'azione dei pubblici poteri sia limitata e predeterminata da rigide regole, specie quando sono in gioco interessi fondamentali quali quello della libertà personale. Un'antinomia insanabile allora tra forma e sostanza?
Una soluzione di questo problema mi sembra estremamente ardua. Di recente, un costituzionalista dell'ultima generazione, richiamando Bertrand Russel, ha osservato che, se pure il sale dell'insegnamento è nell'educazione al dubbio, alla diffidenza verso ogni soluzione precostituita, questo non vale quando l'esposizione del pensiero prende la forma di un libro, perché "ogni libro racchiude un universo in sé concluso in cui tutto è spiegato, coerente, bilanciato, senza spigoli".
E poiché questo mio intervento non è, di tutta evidenza, un libro, è altrettanto evidente che posso suscitare solo interrogativi ed indicare solo qualche linea di tendenza.
Io credo che un cartello indicatore di direzione, davanti al bivio tra legalità formale e legalità sostanziale, debba tuttora essere rinvenuto nell'ordinamento positivo, e piuttosto nella esaltazione dei valori su cui esso si fonda.
Quale che sia oppure che possa essere questa indicazione, vorrei proporre alcune riflessioni.
Comprendiamo tutti che uno dei nodi centrali con il quale siamo chiamati a confrontarci in un ordinamento dominato tendenzialmente dal principio della divisione dei poteri, è quello dei rapporti tra politica e giustizia.
In questo contesto due sono stati gli aspetti che hanno richiamato principalmente la mia attenzione nella recente esperienza di governo.
Innanzi tutto quello della relazione tra discrezionalità amministrativa e giurisdizione penale.
E' innegabile che il ruolo istituzionale della magistratura, nell'osservanza puntuale del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, impone fra gli altri il perseguimento di fatti di malcostume politico e amministrativo. Ora non vi è chi non ricordi che oltre gli effetti altamente meritori e benefici delle inchieste su malaffare e politica - e di altre consimili - taluno ha voluto ravvisare anche effetti in qualche modo negativi, provocatoriamente espressi dall'allarme lanciato perché quelle indagini avrebbero bloccato una consistente quota delle attività economiche del nostro Paese. L'allarme connesso ad una possibile conseguenza riflessa dell'azione giudiziaria non può servire certamente a bloccarla quando si tratti di perseguire il malaffare e gli arricchimenti illeciti, specie quando è in gioco la lealtà nei confronti delle istituzioni e della società.
Però è certamente vero che in mancanza di precisi confini alla giurisdizione, amministratori pubblici e funzionari, ai quali è affidata la gestione della cosa pubblica, avvertono oggi una situazione di incertezza che si traduce in un inevitabile rallentamento delle procedure amministrative, quando non addirittura in una inerzia dettata dal timore di incorrere in comportamenti suscettibili di rilevanza penale. Insomma il sospetto della illegalità che incombe su tutto il loro operato, senza che nessuno sia in grado di distinguerla prima con certezza, li spinge ad inerzia che è pur sempre illegalità.
Il tutto - è bene precisarlo - a discapito del cittadino e dell'interesse stesso dell'amministrazione. Senza contare che, con il perpetuarsi della sfera dell'illegalità qualcuno, con una iperbole, in un recente convegno a Catania, ha detto che, essendo oggi più alto e più frequente il rischio, più alto può diventare il prezzo della corruzione.
Ed è proprio perché il giudice penale deve concentrarsi sui casi che destano allarme sociale, che occorre ritrovare le fila di una corretta ed equilibrata ridefinizione di competenze per individuare a fianco ad una legalità dell'amministrazione una legalità del giudice ed anche per evitare che, specie il giudice penale, si trasformi in un controllore permanente dell'amministrazione, contro il principio della divisione dei poteri.
Molti magistrati sono consapevoli che essi non costituiscono un potere che tutto assieme debba esprimere una politica, bensì un ordine che esercita una funzione diffusa tra i suoi appartenenti, riconducibile per Costituzione soltanto all'attuazione della legge, ed è per questo che sono convinti anch'essi che bisogna recuperare l'efficienza dell'attività amministrativa e la cura di interessi pubblici concreti cui non è loro compito attendere. Occorre poi ricordare che, sotto il profilo tecnico, l'attività giurisdizionale non può che essere un'attività vincolata - essendo il giudicare il dedurre da una norma generale e astratta predeterminata un precetto singolare e concreto - mentre l'attività amministrativa si esprime in valutazioni discrezionali di merito.
Bisogna perciò ridisegnare un tessuto di regole capace di restituire all'amministrazione il ruolo e la dignità di potere coeso alla cura di interessi concreti lasciando al giudice penale soltanto il compito di perseguire fattispecie criminose e alla giustizia amministrativa funzioni di ripristino della legittimità violata da atti dell'amministrazione che ledano interessi dei singoli, come prescrive l'art.103 della Costituzione.
A questo fine si impone un mutamento di cultura. In via di principio, l'idea di legalità nell'azione amministrativa dovrebbe essere concepita non più con riferimento al binomio legittimità - illegittimità, bensì piuttosto in termini di risultati. Se si sono conseguiti gli obiettivi previsti dalla legge o dai programmi o se l'iniziativa intrapresa appare idonea a raggiungerli, non dovrebbe derivare per gli amministratori alcuna responsabilità né sul piano penale né su quello amministrativo e contabile, salvo ovviamente reprimere con il massimo rigore la corruttela e l'arricchimento illecito
Allorché il danno prodotto dall'azione illegittima sia rimovibile con un ravvedimento attuoso, come ad esempio l'annullamento di ufficio dell'atto amministrativo, oppure, quando vi sia un soggetto che abbia subito una lesione per effetto dell'atto illegittimo, mediante ricorso al giudice amministrativo, dovrebbe in radice escludersi ogni possibilità di intervento del giudice penale.
Mi rendo conto che queste idee- guida, che mi hanno ispirato nel costituire di recente al Ministero una commissione di studio, scuotono vecchie convinzioni e vischiosità pseudo-scientifiche, oppure suscitano preoccupazione in chi ha paura di perdere potere.
Così è accaduto quando le leggi approvate dal Parlamento hanno espresso la tendenza a trasformare i controlli di legittimità in controlli sui risultati. Questi ultimi non riescono a decollare per le resistenze anche inconsce degli apparati che si sentono orfani dei controlli sugli atti. Controlli questi ultimi condotti talvolta, tuttora, sino allo spasimo, ma che tuttavia durante la legislazione che così li prevedeva non hanno impedito il malaffare e l'inefficienza della pubblica amministrazione a tutti i livelli. E comunque portano alla deresponsabilizzazione del pubblico funzionario che, invece, nella sua attività, deve essere mosso dall'intento di perseguire il pubblico interesse rimuovendo gli ostacoli che impediscono ai cittadini di fruire dei beni della vita dei quali l'amministrazione dispone e non per condizionarne le intraprese.
Sarà stata utile l'iniziativa che avevo intravisto molti anni fa da studioso e che ho cercato di realizzare appena insediatomi come Ministro, cioè di ridisegnare il confine tra attività discrezionale dell'amministrazione e sindacato del giudice penale?
Anche se fossi stato sicuro in partenza della sua assoluta inutilità, l'avrei ugualmente avviata, per una esigenza che partiva dalla mia coscienza di fronte alla paralisi della vita amministrativa che produce gravi ricadute sui cittadini, e ripristinare così la "legalità" sotto il profilo del principio della divisione dei poteri.
Se dunque il nostro ordinamento, come ho detto prima, già esprime istituti e linee di tendenza che non fanno coincidere la categoria della illegittimità con quella della illegalità, ciò vale anche per quel che riguarda il sistema dei controlli, nei quali il parametro di riferimento dovrebbe finire con il coincidere non con una fattispecie normativa ma con il raggiungimento dell'utilità sociale, anzi meglio, dell'utilità generale.
Se, con riferimento all'azione amministrativa, è indispensabile agevolare la linea di tendenza che vuole privilegiare il raggiungimento dello scopo e far ravvisare in questo aspetto il nuovo parametro della legalità, nel diritto penale recenti orientamenti normativi appaiono diretti a superare i concetti di legalità - illegalità ispirati a modelli tradizionali, sembrando tendere essenzialmente a ripristinare l'ordinato svolgimento della vita civile, piuttosto che a far corrispondere il comportamento di tutti ad astratte fattispecie normative.
Vorrei riferirmi a qualche esempio significativo per rilevare la trasformazione in senso pragmatico, "utilitaristico", inteso nel significato di utilità generale, del nostro sistema penalistico. Così all'istituto del patteggiamento che abbrevia i tempi della giustizia, come a quello relativo ai collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti) con il quale ultimo istituto sono stati raggiunti importanti e significativi risultati nella lotta contro la criminalità organizzata.
Istituti mutuati da ordinamenti dove vige il principio della discrezionalità dell'azione penale dove cioè la disciplina della "contrattazione" consente in via d'intesa extra-processuale di eliminare la maggior parte degli affari penali.
Ma lì si è in un mondo dove l'argine al possibile abuso di questi istituti transattivi è insito nel costume che fa coincidere la legalità con il "senso civico" che costituisce, di massima, argine agli abusi.
Il senso civico si configura come nozione legata al concetto di utilità generale, densa di pragmatismo; una nozione intuibile ma non definibile se non ricorrendo alla proposizione di David Hume "il tuo grano è maturo oggi: il mio lo sarà domani. E' utile per entrambi se oggi fatico per te e tu domani mi aiuterai". In questi ordinamenti il "senso civico" costituisce un indubbio argine verso effetti distorti che possano prodursi con la previsione, offerta a "regime" a chi delinque di sostanziosi sconti di pena, se poi collabori a far sgominare l'organizzazione criminale semmai da lui stessa costituita.
Per quel che ci riguarda, secondo i canoni tradizionali della nostra cultura ispirata al razionalismo e all'idealismo che vorrebbe il crimine comunque punito, secondo l'idea kantiana, "anche se un solo uomo restasse sulla terra", il pentitismo appare certamente in conflitto con il nostro ideale tradizionale di legalità. Come può conciliarsi questo ideale della inderogabilità della punizione con il concetto pragmatico dello scambio fra cospicue riduzioni di pena - che rasentano l'impunità - concesse all'autore del crimine ed utilità generale che consegue dalla sua collaborazione?
Vi è dunque una difficoltà d'ordine etico e concettuale di far coincidere con il nostro ideale tradizionale di legalità, istituti nati in sistemi giuridici dominati dal pragmatismo. Un concetto quest'ultimo legato a sua volta all'idea di convenienza: "conviene a tutti osservare le regole comuni" e che costituisce il limite positivo e negativo sia all'azione dei singoli che ai comportamenti sociali.
Ebbene sul piano della politica criminale non possiamo assolutamente privarci - ripeto non possiamo in alcun modo farlo - di strumenti che stanno dando così positivi risultati nella lotta contro la criminalità organizzata, anche se occorre ricordare che, su colui che ottiene il beneficio in cambio della collaborazione concessa, rimane indelebile, sul piano giuridico ed etico, il marchio della condanna per il crimine commesso.
Quanto alle preoccupazioni che un eccessivo uso dei collaboratori di giustizia possa condurre all'acquisizione di prove non genuine, il discorso assume significato pratico perché investe l'aspetto della professionalità del magistrato che deve saper discernere gli elementi utili al contesto investigativo da quelli irrilevanti sul terreno della prova. Così in particolare quando si tratta di dichiarazioni "de relato", riferite per sentito dire, i riscontri devono essere ancora più forti per eliminare l'inevitabile tasso di soggettività dell'assunto.
Altro è invece il problema d'ordine teorico di conciliare, dal punto di vista etico e concettuale, detti istituti "pragmatici" - ormai per noi indispensabili se vogliamo vincere l'antistato - con la nostra cultura.
Per far questo dobbiamo abituarci a capire che anche da noi il concetto di legalità si sta trasformando. Dalla conformità a fattispecie normative astratte, al ristabilimento dell'ordinato svolgimento della vita civile.
Questo può ripugnare al nostro ideale, ma dal punto di vista della legalità, intesa come bene comune, finisce per acquistare un significato positivo. Tuttavia, mancando da noi quel "senso civico" di cui si è discorso, resta il rischio che istituti diretti a realizzare quel bene comune e che si stanno dimostrando così efficaci nella lotta contro il crimine organizzato, possano essere strumentalizzati a fini egoistici.
Con il porre al centro della legalità il bene comune espresso nei valori della Costituzione siamo di fronte alla sfida di una nuova cultura della legalità dalla quale molti strati della nostra società sono ancora lontani, mentre altri se ne stanno allontanando quando proclamano iniziative di tipo eversivo che negano in radice quei valori supremi della Costituzione, quali l'unità della Repubblica e la solidarietà, diffondendo pericolose forme di illegalità.
S'impone a tutti, e soprattutto alle Università quale luogo di promozione culturale, l'opera di educazione civile tendente alla ricerca di argini sicuri nei valori della Costituzione. Né può essere oggi dimenticato il Magistero della Chiesa che si è posta in prima linea nella lotta contro il crimine diventando in alcune regioni l'unico sicuro punto di riferimento. Nella Nota pastorale "Educare alla legalità", i vescovi italiani hanno ricordato che l'autentica legalità trova la sua motivazione radicale nella moralità dell'uomo, e che la crescita di una più viva coscienza della legalità esige che l'ordinamento positivo sia orientato verso la tutela e la promozione del bene comune.
Credenti o non credenti non possiamo non ricordare questo monito che riassume appunto nel "bene comune" anche concetti maturati in culture diverse e che possono ricondurci ad una idea universale di legalità, concepita non come mera conformità a regole imposte dall'alto, ma come adesione della nostra coscienza a valori eterni di civiltà.
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